Visita a Fadin: nel Theatrum mundi di Eugenio Montale
Come già osservai, non poche stagioni fa, nel secondo capitolo del mio L’atelier di Montale, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1990 (pp 44-52), Visita a Fadin viene a costituire un momento chiave nello svolgimento dell’opera montaliana, un punto nodale da cui dipartono alcune direttrici di ordine sia espressivo sia contenutistico che portano fin nel cuore del così detto “secondo Montale”, il poeta di Satura e delle raccolte diaristiche chiuse da Altri versi. Ho già sottolineato, in quelle pagine, come nella seconda prosa di La bufera e altro il giovane Sergio Fadin, poeta ben presto rubato alla vita dal male incurabile del tempo e del quale uscirono postume le Elegie nel ’43, come ci fa sapere lo stesso Montale nelle Note alle edizioni Mondadori della Bufera, è fra i primi personaggi compiutamente delineati nella figura, nel volto, nelle caratteristiche di una fisiognomica che disvela, come una mappa, i territori altrimenti nascosti di un mondo tutto interiore, di una personalità perentoriamente connotata da ragioni etiche irrinunciabili agli occhi stessi del “visitatore”. Come pure la sua compiutezza si rivela nei pochi essenziali dati che costituiscono il suo “spazio” di personaggio collocato nello scenario della «balconata degli incurabili», dove altri «compagni di viaggio», gli operai i commessi i parrucchieri, sono passati come comparse nella loro «ultima sosta del viaggio».
In tale scenario, dunque, è passato anche Montale, vivendo un rapido incontro, del cui colloquio non ricorda «più nulla»: è passato come un testimone muto, uno spettatore. Il dato iniziale, reale ed autobiografico, è stato l’incontro fra due persone, e delle due una diviene personaggio, l’altra si fa rammentatore, narratore; è in questa funzione che l’autore concepisce in termini allegorici, nella sua interpretazione di un dato e di un mito personale, la umana vicenda di Fadin inscritta nell’universale vicenda che tutti coinvolge, come scena del Theatrum mundi. In questa scena l’interprete da voce alla persona Fadin, lo interpreta come personaggio “teatrale”, per restituircelo come persona, non più maschera, secondo l’etimo latino, ma persona che rivendica la propria incoercibile presenza nel “teatro del mondo”: la rappresentazione di Sergio Fadin diviene per Montale istanza morale.
Se l’esistenza è allegoricamente, secondo una tradizione che inizia con Platone e passa per le moralità medioevali e poi per il “gran teatro del mondo” seicentesco, la parte che ognuno (Everyman, Jedermann) assume, la morte è dunque una “uscita di scena”: «Exit Fadin», constata Montale, tramite la didascalia che chiude la rappresentazione testuale dell’incontro. Fadin esce per entrare così in un «ordine diverso» che è quello dell’atto poetico il quale ridà voce alla persona, la pre-sentifica, la rende presente nella tessitura poetica, da inafferrabile qual è nella trama dell’esistenza: l’ordine diverso è quello del «libro delle tue reliquie» che Montale può attendere senza fretta, giacché il primo modo in cui Fadin rivive è nella lezione profonda di «decenza quotidiana»; ma frattanto è nella pagina della prosa montaliana che il giovane poeta persiste in un ordine diverso, se si accetta una ermeneutica montaliana che assume la stessa forma artistica come dimensione metafisica, dove si può svolgere il tentativo di sapere, «anche se il perché della rappresentazione ci sfugge». Certo, negli anni di composizione della Bufera l’atto poetico montaliano è al culmine della sua fiducia in una possibilità “divina” della parola che racchiuda sovrasensi simbolico-allegorici e li custodisca nel suo stato tensionale di trasformazione e trasfigurazione e metamorfosi del dato naturale, dei miti esistenziali, delle persone messaggere del divino, come lo è Clizia. Una parola che instaura il cerchio allegorico messaggera-poesia-vita. Il Montale che verrà dopo, quello prosastico, quello satirico, quello diaristico, vedrà sfumare e spegnersi via via questa possibilità; la poesia invertirà tutte le sue potenzialità allegoriche; l’allegoresi montaliana costruirà sempre più nel vuoto; la vita, il puro dato vitale, chiederà solo il senso di un oltrevita, parola- chiave dell’ultimo Montale. Siamo così alla metabiologia che sostituisce la metafisica del primo grande momento montaliano. La poesia si fa prosa perché tende ad avvicinarsi alla vita, alla sua anche minima insignificanza, nel parlottare, nel rimuginare del Vecchio, nel rimemorare anche i minimi bagliori del passato.
Il “parlato”, il “colloquiale” del Vecchio Montale è un discorso in sordina, un continuo ininterrotto ragionare in punta di labbra sulla vita, un mormorio che è definizione tentata di un terzo status, giacché la vita attuale, in atto, è priva di senso come pure lo è ogni tradizionale metafisica legata alla concezione di «un’altra vita», di un aldilà.
Ritorniamo di nuovo a Visita a Fadin che il poeta conclude affermando, con un modulo tipico di molte sue liriche epigrammaticamente legato alla sentenziosità, che «La tua parola non era forse di quelle che si scrivono». Per un poeta non ancora “Vecchio” e in rapporto con gli intellettuali di formazione liberale estranei per la loro congenita natura e formazione alla cultura d’impronta fascista, l’immediato dopoguerra si presentava come una possibilità di rifondazione della società italiana sulle basi di una radice umanistica comune alla vecchia Europa e ben estranea alle prime avvisaglie della futura società di massa e post-industriale. Quella sentenza che chiude la prosa è un’apertura dichiarata alla vita, quando essa è, come in Fadin, lontana dal «richiamarsi alle questioni supreme, agli universali», una vita vissuta in modo umano, «cioè semplice e silenzioso», vale a dire in un modo che può inverare lo stesso atto poetico, stringere in una le ragioni del vivere e quelle del poetare. Il personaggio Fadin, dunque, è prefigurazione di personaggi che compariranno nel tardo e ultimo Montale come estremi depositari di tale verità, lontani ormai nel tempo, certo non più paradigmatici di un modello esistenziale realizzato nella pienezza morale del giovane Fadin, eppure ancora figure di salvezza, affioranti dall’infanzia, come la «donna barbuta», una presenza che s’incontra inizialmente nelle prose di Farfalla di Dinard, o presenti nella casa della senilità, come la Gina, o affioranti da un’epoca intermedia: vere e proprie dramatis personae, delle quali si deve non solo rilevare la presenza ma misurare anche la consistenza mitopoietica, pur tenendo conto che la poesia del “Vecchio” brancola tra il buio sempre più fondo della memoria e quello della morte, per cui si tratterà di afferrare più ombre che personaggi, più figure che persone, più «adorate mie larve!» e nomi e flatus vocis che presenze delineate a prender campo su di un’iconografia scenica di distesa e visiva proporzione.
Sono figure di un teatro mentale, dove contano anche (o solo) gesti, atti, volti “occasionali”. Direi, anzi, che proprio in questo teatro della mente e della memoria, in questo apparire/disparire di figure, di ombre, di immagini come proiettate da una lanterna magica, la poesia montaliana offre le sue ultime emozioni estetiche, crea ancora dei piccoli ma resistenti miti che riescono a “passare” la pagina, ad uscir fuori da una costellazione di sentimenti e di suggestioni fin troppo privati, chiusi in loro stessi.
Credo che il lettore, proprio perché il teatro mentale montaliano offre poi la sua ultima non vuota allegoria, quella di un “Teatro del mondo” dove pur si recita la gran farsa del nulla o del dis-astro, dove tutti siamo partecipi anche se crediamo di esserne soltanto spettatori, il lettore, dicevo, può scorgere quella piccola folla di personaggi che appaiono alla ribalta come evocati per un subitaneo miracolo: persone che provengono dalla vita e fanno la loro forse ultima apparizione grazie alla strenua e residua fiducia del poeta nella possibilità che la poesia, sia pur sliricizzata, prosaica, in sordina, faccia risuonare la voce del passato, trasfigurare in presenza ciò che è assenza.
In Vista a Fadin, insomma, il lettore montaliano, avendo ormai aperto dinnanzi a sé tutto l’arco dell’opera del poeta, avendone seguito i mutamenti di rotta, le inversioni, i ribaltamenti di segno o di faccia (il verso e il recto come affermò Montale stesso a commento della seconda fase del suo discorso poetico) può identificare i dati di partenza di quelli che saranno assieme il “teatro del mondo” e il “teatro mentale” del secondo, del “vecchio” Montale a partire da Satura. Non si tratta però di ripercorrere propriamente la storia di un tema o di un motivo poetici dalla succitata raccolta fino ad Altri versi, prova ormai estrema, bensì di giungere, particolarmente nell’ultima raccolta montaliana, ad identificare il compiersi di un’allegoria, l’ultima, che diviene una chiave di lettura a mio parere ben fruttuosa. Si sa quanto gioca, a livello di immaginario, la frequentazione che Montale ebbe del teatro musicale, a partire dalla sua giovanile passione per il canto e il mondo della lirica per finire alla sua attività di critico musicale per il «Corriere d’informazione» negli anni 1954-1967, senza dimenticare il suo lavoro di traduttore di testi drammatici, in particolare quelli shakespeariani, da Amleto a La commedia degli errori, Il Timone d’Atene e II racconto d’inverno. Si deve anche tener presente come nelle prose di Farfalla di Dinard e Fuori di casa personaggi e ambienti provengono in alcuni loro tratti distintivi di costume, sembianze e trucchi, dal mondo artefatto, fantastico e convenzionale, per certi versi «assurdo» come ebbe a dire lo stesso poeta, del teatro lirico e melodrammatico.
Per brevi cenni suggerisco alcune osservazioni che necessiterebbero poi di una ben più ampia campionatura e valutazione. Montale, a partire da Satura, assume via via il referente costituito dal mondo teatrale non più o non solo come fonte di immagini, di oggetti, di trucchi, veri materiali per una imagerie che trova espressione nelle prose, ma come un archetipo metaforico, per il quale il mondo e la vita sono rappresentazione, una rappresentazione del nulla, del vuoto, del disastro, della, proprio con termine teatrale, catastrofe, priva però di una forma conquistata di catarsi. Anche in Montale, come in Pirandello, viene a ribaltarsi il tradizionale concetto del teatro come metafora della vita, per cui la vita e il mondo sono essi stessi una grande e universale rappresentazione, in forma farsesca, grottesca o assurda; il gran teatro del mondo montaliano, certo anche in consonanza coi vari Beckett, Ionesco, Adamov, è un “Theatrum mundi” tutto in chiave di crisi; crisi di una parola che non significa più niente, svuotata, balbuziente; crisi di atti e gesti da burattini senz’anima, da manichini, da fantocci; crisi del personaggio-maschera privo d’identità e che trova la propria figurazione, appunto, nella maschera. Parole, atti, gesti, figure, scenari, vivono nel teatro, come in un universo di finzione, ed hanno natura di ombre, di simulacri: ombre delle ombre del mondo, simulacri di simulacri, quelli della vita, che il vecchio Montale vede in un passato immemoriale e appunto umbratile e che allontana definitivamente anche coloro che furono i “veri vivi”; o che vede, tali simulacri, nel presente della contingenza fenomenica, ma che sono in realtà i non-vivi del tempo a lui presente. Se il Tutto è Nulla, il Mondo è come un grande Simulacro; e il mondo è come il Teatro, è come una Rappresentazione, anch’essa popolata da un suo universo di personaggi, voci, oggetti, visti come mere parvenze, come pure astrazioni, ma ancora capaci, sia pur per via negativa, di costituire minime significanti verità poetiche.