Sulla poesia di Mariangela Gualtieri
Nel 2010 la Einaudi fa uscire una delle più valide raccolte poetiche di Mariangela Gualtieri, Bestia da stile. Quella della Gualtieri è una poesia-poesia che, specie nelle prime prove, quasi nasce dentro il palcoscenico, scritta perché venga recitata e agita dagli attori del Teatro della Valdoca, diretto da Cesare Ronconi (un teatro di ricerca e sperimentazione di grande rilevanza nazionale, che ha esaltato la scrittura dell’autrice, ad esempio per raccolte quali Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, edita da Einaudi nel 2003, e Paesaggio con fratello rotto, pubblicata da Sossella nel 2007). Una poesia da sempre corporea e incorporata, in cui la “bestialità”, cioè la creaturalità del mondo della vita, e lo stato dell’anima della gioia, appaiono inscindibili: la vita, intesa come Zoè, è immensamente, infinitamente gonfia di un’energia che pare anche avere un’origine divina in sè. Bestia da stile consta di cinque sezioni (opportunamente in quarta di copertina del libro si ricordano i cinque atti della drammaturgia classica): il metro prescelto, tradizionale, si fonda su endecasillabi e in generale su versi regolari: “al centro di me / una bestiola accucciata si sveglia” (quinario + settenario); “Per tuo sorriso infante, bambino mio, / darei tutto il mio orto” (endecasillabo + settenario).
Lo stesso lessico è qui maggiormente inserito nella lingua italiana standard ma sempre assolutamente ricca di echi e risonanze di significato anche tramite padronanza dei significanti, tipo le paronomasie, o non superficiali “bisticci” fonetici.. Sono scelte che costituiscono un correlativo oggettivo formale di una ricerca interiore, che molto deve, a detta della poetessa stessa, ad autori quali Raimon Panikkar, James Hilmann, la drammaturga Nelly Sachs; ma anche al Libro dello Splendore (Zohar) della tradizione ebraica, che è uno dei riferimenti delle dottrine cabalistiche medievali, costituite di misteri e di luminosità. Direi che la ricerca della Gualtieri, qui, si apre a visioni cosmologiche, dove s’incrociano limiti umani e desideri con afflati di respiro universale:
“Sii dolce con me. Sii gentile. / È breve il tempo che resta. Poi / saremo scie luminosissime. / E quanta nostalgia avremo / dell’umano. Come ora ne / abbiamo dell’infinità.” (p. 114).
A mio parere il dettato lirico si affina ancor di più raggiungendo vertici davvero alti nella quinta sezione di Bestia da stile, Mio vero, dove è l’Amore, assunto come energia universale, spirituale, materiale, ma al di fuori di presupposti religiosi istituzionalizzati, a ispirare la scrittura di Mariangela, a dettare la di lei ricerca:
Se questo è amore, mi dico. Ma sì, / questo è l’amore che conosciamo. Ora. / Amore appiccicato, che incolla / quel poco di ala modesta sulla schiena. / Amore legato. In cui si ripete la solfa / del tu e dell’io. Non siamo capaci / di essere insieme acqua e moto, / sale e onda, unica impresa spettacolare. / Come il mare laggiù, lo vedi? (p. 126)
Il pensiero poetante si nutre di visioni orientalistiche, quale è l’a-dualismo tipicizzante la tradizione hindu e buddista:
C’è nella tristezza un contagio / amore mio, e da questo si vede / che abbiamo fatto comune cuore / e siamo uno che pare due. / Allora io / insemino la gioia / in questa cosa che non consiste / però esiste e tiene entrambi appesi. / La gioia ce la metto io. (p. 127)
Quella della Gualtieri diviene poesia del e sul mistero, intuìto come mancanza da presentificare, che si cela nel silenzio (ma non nel mutismo della Vita, del Cosmo, e dell’Amore):
Te lo dico io / che ascolto / il tonfo della pigna e della ghianda / la lezione del vento / e il lamento della tua pena / col suo respiro ammucchiato sul cuscino / un canto incatenato che non esce. // Ascoltare anche ciò che manca. / L’intesa fra tutto ciò che tace. (p. 128)
Poesia che, negli ultimissimi anni, viene “inscenata” dalla voce e dal corpo stessi della poetessa, i cui versi vanno così spargendosi per gli spazi italiani, creando una sorta di “rito” sociale assai partecipato.