
Nel teatro di Natalia Ginzburg, oggi
Parto dal presupposto che nei testi per le scene della Ginzburg, tutti i personaggi consistono ed esistono, per quanto e per come parlano. Il loro discorso è composto su una struttura sintattica paratattica, vicina al parlato, seriale negli enunciati: una brachilogia tipica di chi non vuole far propri “grandi racconti”, o interpretazioni esistenziali, che non appartengono al loro modus eloquendi e cogitandi. Paratassi, frasi brevi, stile a volte nominale, e nel fondo la sottostruttura di stampo narrativo, costituita dall’indiretto libero: è su tali presupposti, a mio parere, che scatta l’invenzione tecnico-espressiva della Ginzburg, il “brulicare” dinamico, a scatti e scarti improvvisi, delle battute e degli scambi, che cattura l’attenzione. I personaggi “conversano”, nel senso etimologico del latino, andandosene coi loro pensieri di qua e di là, aiutati dalla sintassi paratattica che non complica imbriglia e blocca il peregrinare dei loro pensieri e parole. Un po’ come accade a noi coi nostri blog, i nostri “post” su Facebook, il nostro spesso casuale e ammatassato chiacchierare via Internet, il nostro “chattare”.
Saltare di palo in frasca nelle topics del discorso è uno degli stilemi espressivi più frequenti; un solo esempio: si veda Tosca, la donna di servizio dei coniugi Flaminia e Cesare, nella commedia in due atti Fragola e panna (1966), quando, verso il finale, saputo che Barbara, la protagonista della commedia in perenne crisi esistenziale, amante di Cesare, è andata dalla figlia aiuto-parrucchiera, si rivolge così alle altre due donne: “Da mia figlia! È andata da mia figlia! Dal parrucchiere Pino […] Dice mia figlia che aveva sempre la sua valigia […] È tanto brava, mia figlia. Pettina tanto bene. Se vogliono, gli do anche a loro un buono di sconto.” (p. 154): il dramma della giovane Barbara si mescola così alle minime convenienze e agli interessi quotidiani, come se nulla fosse.
E ancora si veda il botta e risposta tra Flaminia e Barbara:
flaminia Mi sembra che tu sia totalmente priva di senso del dovere.
barbara Le sembra? Sembra anche a me.
La “nomade” Barbara replica come se nulla fosse e niente contasse, senza la minima prevedibile conflittualità, alla critica di Flaminia. E se a Tosca, come detta regola, sono affidati gli scatti comico-umoristici, a Barbara e Flaminia capitano impennate di serietà drammatica, dove le parole divagano senza un centro fisso di riferimento, un equilibrio sentimentale e morale; l’etica della responsabilità è sconvolta dal mutare dell’antropologia familiare, per cui, col senso del clan e della tribù, occorrerebbe progettare e sperimentare nuovi rapporti sostitutivi dei legami familiari (costrittivi, falsi, soffocanti) accettando il cambiamento: ma non è davvero facile, e Barbara lo sa:
Ho paura che mi venga voglia di morire. Perché mi metto a pensare alla mia vita, e dove andrà a finire la mia vita, dove andrò domani, come farò. Mi metto anche a pensare al male che ho fatto, e ho rimorso, però non so neanch’io come potevo fare diverso, e mi viene una gran pena per tutti, per mio marito, per il bambino, per Cesare, mi sembra che siano tutti così infelici, ma infelici da morire.
Al proposito va ricordato che di crisi della condizione “tribale” delle compagini dei personaggi della Ginzburg (oggi tali compagini giovanili le chiameremmo “branchi” o “gruppi”, più o meno adolescenziali), e del corrispondente “vuoto” delle figure paterne, aveva scritto col suo acume e l’intelligenza del suo essere definito un “sociopatico”, Cesare Garboli nella sua prefazione a Opere (Milano, Mondadori, 1986), ricollegando alla condizione tribale delle compagini pseudo familiari il corrispondente “vuoto” delle figure paterne, con le loro assenze, e le loro autorità sempre più messe in crisi di rappresentatività.
Assieme alle considerazioni centrali e centrate di Garboli va anche ricordato quanto Paolo Puppa asserisce, specie per i primi testi del teatro della scrittrice, circa il Padre come “figura vetero-testamentaria” che, dalla tradizione culturale ebraica via via fino al tempo odierno, va a perdere sempre più la propria autorità, e soprattutto registra la sua assenza simbolica di “regolatore gnoseologico del mondo”[1] (voglio qui ricordare come i temi in questione siano esplosi, ad esempio, in un grande autore statunitense quale è stato Philip Roth).
Dunque, alle repliche impietose di Flaminia, ancora una volta come se nulla fosse, ecco lo scarto improvviso, quasi un apròsdoketon: “Allora io posso anche andare a buttarmi nel Tevere.”. Battuta di straniamento, questa di Barbara, (ma per Flaminia fino a un certo punto) che chiude lo scambio di parole a livello alto, dove il girovagare riflessivo della giovane tocca vari punti nevralgici: il morire; la paura; il destino personale; il male; l’infelicità: tutte topics che, o sotto o sopra il pelo dell’acqua, aggallano in tutti gli scambi conversazionali e che il testo ginzburghiano fa affiorare in increspature verbali assieme aspre e malinconiche, puntutamente pessimistiche, che alludono a sottotesti in cui il mood esistenziale porta al tragico e assieme all’assurdo della vita umana e del Cosmo..
Anche Sandra Petrignani nella sua bella, appassionata, ricca, recentissima biografia La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg (Vicenza, Neri-Pozza, 2018), in particolare nelle pagine dedicate alla scrittura teatrale, sottolinea come scorra al fondo di una comunicazione precaria, quasi negata, che non si risolve quasi mai positivamente nei dialoghi tra personaggi, un sentimento della vita metaforicamente identificato nella
nave di un mondo in via d’estinzione, di valori che non servono più e in nome dei quali, in un lontano passato, qualcuno si è persino immolato senza riuscire a salvare né la società, né i singoli individui di un’umanità sempre più confusa e velleitaria.
Il divagare dello sciame di parole dialogiche è anche il segno stilistico della casualità del vivere; la struttura sintattica di tipo paratattico permette di disseminare gli argomenti dando un’impronta di improvviso casuale, vago, come nelle “chiacchiere” quotidiane, dove si compongono argomenti seri con facezie e non-sense, il parlare “del più e del meno” con argomentazioni impegnate. Esempio massimo è quello di Cesare che, non preoccupandosi delle eventuali pulsioni suicide di Barbara, anzi, escludendole, si dice certo che “Girerà [Barbara] la città mangiando gelati. Fragola e panna. Ho speso un patrimonio in gelati di fragola e panna, con lei.”: Barbara diviene agli occhi di Cesare quasi per antonomasia, colei che s’ingozza di gelati fragola e panna.
E se in quest’esempio c’è sotto tutto il vuoto amaro della concezione di un donnaiolo come Cesare, in altri esempi gli accostamenti “casuali”, all’improvviso, scoprono finalità ilari e umoristiche: si veda, nel primo atto, Barbara che racconta la sua storia a Flaminia e che riferendosi alla nonna quando lei era bambina, ricorda che
Poi tornava e si nascondeva per bere. […] Tante volte mi addormentavo rannicchiata sul tappeto. Poi però ha venduto anche il tappeto. Mia nonna non mi ha neanche insegnato a lavarmi la faccia. È un miracolo se ho imparato a lavarmi la faccia, al mattino. Potrei avere qualcosa da mangiare? Ho fame. Mi sento svenire. Non mangio da ieri a mezzogiorno.
Un tappeto-copertina di Linus, simbolo difensivo, raccontato assieme come oggetto prosaico di vendita; e un’improvvisa, materiale esigenza fisiologica, quella del cibo, accostata a un’altra misera esigenza sentimentale; il randagismo di Barbara inizia e termina nella sua mente e nelle sue parole. Parole che hanno sotto di esse il vuoto minaccioso e terrificante della solitudine e del silenzio.
E vengo così all’oggi: la diffusa, imperante virtualità, la rete costituita da miliardi di fili che s’intrecciano, il network digitale costituito dalla rete internautica, non sono poi delle superficiali, momentanee, irrilevanti gratificazioni che ci danno l’apparente, piena, realizzabile possibilità di vincere la solitudine e il silenzio? E non finiamo per girovagare tra un sito e l’altro, di saltare tra una piattaforma digitale e l’altra, vivendo così il nostro randagismo mentale, senza più riuscire a stabilire coordinate precise, orientamenti stabili, direzioni volutamente precise? Saranno per sempre gli smartphones i nostri inseparabili compagni di vita? Certo, rispetto agli anni vissuti dalla Ginzburg, tutto è passato in una scala infinitamente più ampia, in una immane serie di dati, e di flussi, sui quali poteri molto forti sanno come intervenire finendo di gestire e determinare la nostra vita: e allora dal randagismo, anche mentale, che una sorta di libertà sembrava concedere, ora siamo caduti in una rete che tutti ci avvolge, ci ingabbia; e siamo costantemente osservati, seguiti, predeterminati nelle nostre più intime espressioni, ben oltre quello che prima era l’attitudine al consumo dei beni materiali! Ci stiamo ormai giocando l’anima (e lo spirito), vinti dalla Intelligenza Artificiale, ci direbbe, io penso, Natalia Ginzburg, oggi.