Osservazioni su “Questi fantasmi!” di Eduardo De Filippo
In attesa di vedere la trasposizione di Questi fantasmi! in forma di film televisivo, lunedì 30 dicembre ‘24, protagonisti i bravissimi Massimiliano Gallo ed Anna Foglietta, assieme ad altri bravi attori di scuola napoletana, come Maurizio Casagrande, per la regia di Alessandro Gassmann, desidero presentare alcune mie osservazioni ai lettori interessati, restando ancorato al testo eduardiano che ricordo essere stato scritto nel 1945 e rappresentato all’Eliseo di Roma il 7 gennaio del 1946 con enorme successo.
Eduardo in quel lasso di tempo è consapevole che il conflitto mondiale è un discrimine epocale, e vuole rappresentare la crisi tremenda in atto con i suoi mezzi espressivi e per il suo pubblico. Il 1944 è l’anno della pubblicazione e dell’andata in scena del Malinteso di Albert Camus, uno dei drammi di riferimento del cosiddetto “teatro dell’assurdo”, dove Marta e la Madre gestiscono una locanda, uccidono gli occasionali pensionanti per poter accumulare un po’ di denaro riscattandosi così dalla miseria, e, per un “malinteso”, arrivano a uccidere Jan, fratello di Marta, capitato fra loro in incognito, dopo molti anni, proprio per donare un po’ di benessere alla famiglia, pur accortosi dell’irrimediabile deterioramento dei rapporti familiari: ne consegue la tragica fine della Madre e della moglie di Jan, Maria, mentre Marta ha disimparato ormai il discernimento tra Male e Bene, perdendo del tutto il sentimento della compassione.
Da una piccola città della Boemia, dove si ambienta il dramma camusiano, tale perché il “malinteso” diviene esistenziale impasse etica dell’agire, alla grande città di Napoli; da un impossibile senso tragico (non c’è nel testo drammatico di Camus catarsi, redenzione, e il capro espiatorio nulla insegna) all’ambigua comicità, mista a compassione, che le vicende di un piccolo borghese napolitano, Pasquale Lojacono, propongono, tramite l’amore transitivo del suo interprete, che ne assume tutte le sfumature caratteriali, il linguaggio, la fisiognomica, e che, proprio per la sua libertà creativa, lo impongono al pubblico con tutte le sue ambiguità di possibile ipocrita. Anche Pasquale vuol tirar fuori se stesso e soprattutto la moglie Maria (medesimo nome della compagna dello Jan di Camus) dalle miserie economiche, gestendo una pensione; e anche Pasquale rimane dall’inizio vittima di un “malinteso”, proprio lui che si dice incredulo di fronte alle ipotetiche presenze di fantasmi in quella casa seicentesca, scenario di antichi fatti cruenti (come la locanda di Camus lo è di omicidi, però commessi al presente). Difatti, la prima “apparizione” dell’amante di Maria, Alfredo, costituisce la causa efficiente, l’incidente scatenante, dello svolgersi dell’intreccio: Pasquale “mal” intende quella figura? O non può o non vuol intenderla, capirne la natura?
Sul filo di tale malinteso e di ogni conseguente ambiguità, Pasquale agirà <<anima in pena>>, sospeso, come nella tradizione etnica ed antropologica napoletana, tra mondo dei morti, all’inizio più inquietante che pacificatore (le supposte presenze spettrali), e mondo crudele dei vivi, tra gesti e parole comiche e sofferenze subite.
La commedia, facente parte del ciclo della <<Cantata dei giorni dispari>>, è imperniata sul triangolo marito, moglie, amante di lei, con alle spalle la lezione pirandelliana di Il berretto a sonagli. Pasquale crede, o “finge” di credere che Alfredo, l’amante della moglie Maria, sia un fantasma da cui è lecito e forse opportuno lasciarsi beneficare, atteggiamento che in tutta la sapiente ambiguità drammaturgica eduardiana determina anche passaggi esilaranti, in una serie di qui pro quo che mettono in risalto la tradizione comico-farsesca non solo napoletana. Con ciò Eduardo traccia un ritratto dell’uomo contemporaneo segnatamente novecentesco, disorientato, sradicato dagli antichi capisaldi etici e sociali, eppure ancora, magari appena, capace di sperare nel futuro, nella comunità, nella quale anche si ride (comicità deriva da kome, villaggio).
Per Pasquale in realtà il poter credere ai fantasmi equivale a mantenere l’illusione, possibile solo se la realtà rimane lontana, poiché se vicina, metterebbe in fuga l’illusione stessa. La sua ambiguità è allora spiegabile dal momento che piano dell’illusione e piano della realtà effettuale degli eventi si attraggono, l’uno non può fare a meno dell’altro, pur se tendono a escludersi vicendevolmente perché l’uno non pregiudichi l’altro.
L’illusione finale, però, che possa tornare un’altra entità materialmente benefica rischia di collocare il personaggio in quel “commercio dei sentimenti” che altri suoi predecessori nella drammaturgia eduardiana hanno conosciuto; ma questo non lo possiamo sapere in base al modo in cui termina la commedia, virata anch’essa verso quell’ <<amaro della risata>> che si fa sempre più pungente e paradossale.