l’eredità di Carmelo Bene

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Cosa ci ha lasciato Carmelo Bene? Il grandissimo ARTIFEX, inimitabile, inarrivabile, eppure nel profondo

della sua sofferta ricerca, depositario di valori immortali?

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Un fondamentale aspetto detiene la testualità scritta di Carmelo Bene: è rimasta solo scritta, appunto, facendo così parte del <<morto orale>>, non portata quindi sulla scena trasformandosi nel fluente, incredibile scorrere dei significanti degli <<atti>> della <<macchina attoriale>>; non divenendo rutilante e incredibile immagine filmica come per un capolavoro cinematografico quale fu Nostra Signora dei Turchi. Per tutto ciò il testo della sceneggiatura dedicata a Giuseppe da Copertino (Giuseppe Desa, santo), e presente nel volume Bompiani delle Opere, lo ritengo assai utile per orientare una volta di più la nostra attenzione verso i moventi che sono al fondo della riflessione teorica di CB, del suo sentimento della vita, del suo rapporto tra etica ed estetica, delle sue concezioni artistiche, il tutto portato all’eccesso, all’estremo, alla consunzione sia fisica che mentale che psicologica. Nell’assenza definitiva della persona Carmelo Bene, della sua Voce, della sua Phonè, del suo corpo, della sua parola, non ci resta che ripensarlo soprattutto attraverso la sua opera scritta: e questa che qui sto analizzando, oltre la sensibilità puramente critico-estetica, ci ricorda, quasi programmaticamente, come la ricerca di Bene sia giunta infine ad un estremo invalicabile, ad una dimensione non più percorribile.

    Il testo dedicato a Giuseppe Desa da Copertino indica senza dubbio il percorso di Carmelo, e mostra i segni che ne contraddistinguono l’elaborazione artistica e culturale. Alcuni sono di natura autobiografica: la visione di una corporeità sofferta, malata, lacerata: nel Santo sono le piaghe di cui soffrì ai glutei e i molti successivi disagi e infortuni; in Carmelo, al netto di un comportamento poco salutare visti gli stravizi inarginabili, il corpo ha assunto sempre più una valenza negativa, quasi baconiana, visto come fatto di pezzi smontabili, perdibili, incoerenti, isolato dal mondo della vita (secondo anche il gusto della cosiddetta scuola pittorica di Londra). Meglio l’inorganico, meglio ciò che è inanimato, meglio perfino, nei rapporti amorosi, il pornografico che è totale disimpegno della e dalla corporeità, sganciato dal Desiderio.

    Circa la condizione del de-pensamento, che ha in Giuseppe Desa un campione esemplare, siamo nel pieno della ricerca mistica, a partire dal pensiero di Meister Eckhart, e proseguendo poi con quello di Schopenhauer (il cui testo Il mondo come volontà e rappresentazione è stato il livre de chavet di Carmelo, una sorta di catechismo laico), maestri ben letti e fatti propri (assieme a molti tratti del nichilismo anticristiano o oltre il cristianesimo, e di <<un Dio che liberi gli uomini dal pensiero di Dio>>, di Nietzsche, ad esempio). Ci  si allinea così, pur se soprattutto nella pars destruens, a paradigmatiche acquisizioni in questa materia: in particolare alla negazione dell’Ego, che è la cuna attraverso cui si deve passare per poter misticamente toccare il Fondo della Realtà (Dio?).Tale processo, come affermato nella cultura italiana, e non solo, da un grande studioso di storia della mistica indoeuropea, come Marco Vannini, ha un prezzo: il superamento delle religioni, anche quelle storiche, specie occidentali, perfino del Cristianesimo (Raimon Panikkar direbbe a favore di una nuova Cristianìa). Ciò in direzione di una più fondante e libera religiosità. Come, dunque, non ricordare le tante volte in cui CB si è dichiarato comunque toccato dalla religiosità, ma non dalle religioni positive, come ricordato già all’inizio, e dopo aver superato da adolescente i canoni della ritualità cattolica nel mentre svolgeva le funzioni del chierichetto?

    Una specificazione di comportamento e di gesto si ripete nel testo, quella di <<A boccaperta>>, che Bene vuole che sia altamente denotativa in San Giuseppe da Copertino, individuata fin dall’età infantile: <<Giuseppe, guarda in alto, a bocca aperta. Come per gioco, a tratti, apre e chiude gli occhi.>>.

   Siamo ancora nel campo della mistica, quando ad esempio il fenomeno della glossolalia dimostra l’allontanarsi del Soggetto da ciò a cui è appunto ‘sottoposto’, compreso il linguaggio (non parliamo, diceva Carmelo, ma siamo parlati). Atteggiamento che così come denota fortemente il Santo, assieme porta CB alla convinzione di fondare una sua formalizzazione espressiva non più rappresentativa, in un teatro non più di rappresentazione, ma, diversamente, in un teatro fondato sul gioco espressivo verbale dei significanti, in cui si va a sciogliere anche la partitura del tutto musicale (siamo ai grandiosi spettacoli degli anni Ottanta). Il significato va rifiutato, fa parte del sociale, della critica ideologica, è inserito nella Storia che è determinata dal Tempo: CB rifiuta tali paradigmi, e sono l’Assenza di significato, il Vuoto senza tempo, il Vano, a costituire la Realtà vera. Si dovrebbe stare in silenzio ma A boccaperta! Come San Giuseppe Desa da Copertino! E anche come la Santa Teresa del Bernini! E anche, se vogliamo, come alcuni personaggi molto beoti nelle amate carte scritte  da uno dei suoi maestri, James Joyce. D’altra parte quale linguaggio risulta a-semantico come quello della musica e del complementare “silenzio”, così frequntato da molti “mistici”?

    Questo ‘L mal de’ fiori è una ricetta farmaceutica di controindicazioni: struttura, dialettica, sociale, prossimo-lontano, il non esserci, etc… Non si può che confermarsi ‘stranieri nella propria lingua’. Il plurilinguismo (crogiuolo di idioletti, arcaismi, neologismi di che trabocca il poema) è il contrario d’una accademia di scuola interpreti.

    Così scriveva nel 2000 Carmelo sul suo poema, in un’autointervista il cui testo è reperibile sul web. www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/152/cafelib.htm.

Con il mal de’ fiori siamo in un territorio estremo: la vita di Carmelo è ormai allo stremo, provata, come ultimo male, dal cancro e dalle cure chimiche; il linguaggio è macellato, frantumato, al limite dell’insignificanza, della irrappresentabilità, spesso quasi privo di senso. Mai CB era stato così vicino alla morte, alla scomparsa del suo corpo e del suo Io, verso l’inorganico (tant’è che si fece cremare). E allora capiamo meglio l’aver messo in una prima sezione come personaggio poetico il Rigoletto-Tribolati, reinventando trama e personaggi tratti da Verdi, Piave, Hugo: il deforme che si fa vedere in libertà ed amore platonico dalla sua innamorata Bianca, sul letto di morte; da quelle pupille immobili e di vetro che non possono certo vedere la sua gobbaccia, la sua deformità:

Ora la salma s’è inverata sposa / al suo compagno orrore / innamorato istante. Gli occhi! Gli occhi / schiusi invetrati / dentro il cieco abbandono non chiudetele! Gli occhi fissi all’incanto non più sguardo / in che l’orrido sposo è disparito / Non più presente è là più non veduto / adora lei che assente fredda quiete / s’offre senza volere / al suo vanito orrore innamorato / ma dell’amore morto serenato / ma com’è della pietra il primamore                                                             

    E sezione per sezione Carmelo compone liriche che esprimono il decadere anatomico del corpo, nelle sue carni, e nel suo <<cor>>; per poi passare alla dissoluzione del pensare, a quella stasi della mente, che in un mistico significherebbe fare il Vuoto nel turbinio del lavoro mentale, e infine la sezione di chiusura, affidata al personaggio mitologico di Niobe, che, parallelamente a una Medea, è capace di osservare l’ordine divino di uccidere i suoi figli. Ma tutto è come slontanato, come se nulla fosse mai esistito, per cui sopravanza una disperata nostalgia di ciò che però in realtà non fu, come può accadere, ad esempio, per un amore inespresso e irraggiungibile dalla voce poetante! Questo è, nell’inversione del titolo di fonte baudelairiana, il male dei fiori, cioè qualunque cosa che non può restare, la cui bellezza vitale disparisce subito, o che forse non c’è mai stata: nostalgia, dunque, di ciò che non mai fu. Il freddo esasperato cupio dissolvi  di Carmelo diviene nel poema aspirazione al dis-essere, al tornare al Nada, tutto è apparenza, e tutto è ingannevole ricerca di ciò che non c’è. Allora si deve compiere la Salita del monte Carmelo (tradotta, come libro di Juan de la Cruz da Bene stesso, ma non pubblicata), lasciarsi ogni residuo ontologico alle spalle, verso il Vuoto.  Occorre quindi un linguaggio poetico estremo, quale è davvero quasi impossibile rinvenire nella letteratura italiana; un linguaggio che apparenta CB a un Gadda, a un Pizzuto, e prima ancora al suo amato Joyce, all’Ulisse. La lingua assunta da Bene viene così massacrata, macellata (un solo esempio:<<’N st’ che v ou s le g get e st’ sc r i ‘t ‘n ni ent \ a b ia n ca car ta st ar l’  pù ch’ poss>>[1]). Cosicché il conseguente plurilinguismo si serve di una molteplicità di lessici, dall’antico e filologicamente accurato provenzale, al salentino, dall’italiano standard a calchi lombardeggianti, a forestierismi vari. La prosodia è dettata dai fiati dello scrivente, da una Voce che pagina per pagina sparisce dal foglio scritto, nel quale i versi si susseguono senza punteggiatura, giacché pause, sospensioni, attese sono già stati esercitati nella e della Voce. Sopravanzano i significanti, e non i significati, e il lettore non deve più capire, ma ‘sentire’, come se ascoltasse un brano musicale, che è asemantico. Deve intuire e immaginare.   Tutte le figure retoriche utili a creare ritmo, musicalità, assonanze, dissonanze, inciampi, corse, salti, vuoti e silenzi, anfibologie, vengono usate. E, con un procedimento tipico della tradizione teatrale del grammelot, vengono collocate alcune cellule di significato nel tessuto versale: un’immagine, un nesso metaforico, una nominazione, qualcosa che serva da punto di orientamento per impedire che il lettore o abbandoni l’atto della lettura, o divenga un fruitore del tutto passivo. [2] Ma anche per favorire un eventuale nuovo attore o attrice affinché abbiano punti di riferimento orientativi di un minimo senso della partitura, anche se il gioco degli accenti, o ictus, e della scansione sillabica deve comunque costituire una sorta di tappeto musicale o di fondo o di primo piano d’ascolto.

    Siamo così davanti all’opera che eccede sè stessa, che si supera, al capolavoro che segna un discrimine forse epocale, pensa il suo autore, ma non a torto: certo, si scriverà, e si agirà in teatro sempre, e in vari modi, e per vari pubblici, ma se saranno opere ‘integrate’ nel sistema, o affogheranno o saranno schiacciate. Occorre ripristinare, a mio parere, e non solo, ovviamente, a mio parere, la dimensione dell’intellectus, o del terzo occhio, o della spiritualità, pur sapendo (e forse a dimostrarlo riuscirà la meccanica quantistica nelle sue attuali ricerche) che materia e spirito tendono a incontrarsi, a con-fondersi.

Per concludere, credo proprio che il lascito di Carmelo Bene possa essere indirizzato forse e soprattutto a chi è aperto, più di quanto lo sia stato lui, al misticismo inteso come esperienza della pienezza di vita, in una visione olistica del vivere, dove vengano ripristinate integralmente le dimensioni del corpo, della mente (psiche) e dello spirito.  Certo, sul piano del ‘pensare teatro’ io credo che della lezione di Bene quasi nulla, al tempo d’oggi, possa davvero servire da ispirazione, da guida, da suggerimento. Il suo estremo e nichilistico tendere al “depensamento”, all’amor vacui che diventa anche evocazione ontologica dell’Assenza, finiscono per far presente sulla scena soprattutto tale assenza, svuotando i significati dati dalla cultura di Stato e dalla Storia. Non credo che le nuove generazioni di teatranti possano allinearsi su tali posizioni, tipiche poi di una cultura della crisi appartenente propriamente alla fine del Novecento. Una residua possibilità, sfuggendo agli imperanti gusti del pop e dell’immaginario virtuale, è quella di una ricerca d’identificazione fra estetica e vita, cercando di essere artisti appunto della propria vita: allora si dovrebbe coniugare il pensiero teatrale e spirituale grotowskiano con quello beniano, intendendo l’arte dell’attore come modalità fondante dell’agire creativamente e contro e oltre gli schemi dati.

    Dal punto di vista drammaturgico attori motivati, e, come sopra precisato, aperti a una concezione mistica del vivere che Raimon Panikkar afferma essere comunque insita in ciascuna persona, possono, a mio parere, innanzi tutto provare e provarsi a mettere in scena entrambi i testi qui presi in considerazione. Occorre naturalmente avere coraggio e tenersi a distanza dagli stilemi d’attore di Bene. Occorre poi non lasciarsi scoraggiare dall’estremismo e dall’oltranzismo ideativo e creativo di CB; piuttosto vedere in lui un maestro che indica la necessità di sottrarsi a ogni condizionamento derivante da qualsiasi potere: civile, istituzionale, culturale e anche religioso. A essere liberi dagli automatismi del pensiero, sapendo che la mente, il mentale non può né comprendere la realtà, né predominare su essa. L’eredità di Carmelo Bene è ancora in gran parte da assumere, comprendere e rielaborare, io credo essendo destinata non solo ai letterati, o agli uomini e donne di teatro, ma anche a chi saprà riscoprire una spiritualità più aperta all’esperienza mondana e a una pienezza esistenziale, anche oltre la dimensione strettamente religiosa, e oltre l’istituzione religiosa.