tra poesia e anelito spirituale
In questo bellissimo racconto di Karen Blixen Babette’s feast (Il pranzo di Babette), uscito in lingua inglese nel 1950, pubblicato in Italia da Feltrinelli del 1962, viene spesso ricordata la parola “misericordia” associata alla parola “verità”: questa associazione porta, afferma uno dei personaggi centrali del racconto, il generale Loewenheim, all’unione della “rettitudine” con la “felicità” , che io personalmente avrei definito “gioia”, evangelicamente.
Occorre, però, ora che venga ricordata, per chi non l’avesse letto, la trama del racconto:
in un piccolo villaggio della Norvegia detto Berlevaag ai piedi delle montagne prospicienti il fiordo omonimo, vivono due anziane sorelle puritane. Le due sorelle, chiamate Martina e Filippa in onore di Martin Lutero e del suo amico Filippo Melantone sono figlie di un decano, protestante e creatore di una setta diffusa in tutto il villaggio. Hanno vissuto una vita di dedizione al prossimo in osservanza delle regole imposte loro dal padre. Una ha rinunciato all’amore di un giovane tenente che diverrà poi generale, l’altra che poteva diventare una cantante dell’Opera ha rinunciato alle lezioni di canto di Achille Papin, il più famoso cantante dell’epoca, siamo a oltre metà ottocento, perché si era permesso di baciarla durante la prova di un pezzo del Don Giovanni di Mozart.
Un giorno si presenta alla loro porta una signora francese, Babette Hersant, sfuggita da Parigi perché accusata di essere una rivoluzionaria. Trascorrono molti anni, Babette è stata ospitata dalle due anziane signorine grazie alla lettera di Achille Papin e si è guadagnata l’ospitalità facendo da governante e contribuendo all’attività di beneficenza. Un giorno da Parigi arriva una grossa vincita di denaro, 10 000 franchi. Mentre tutti credono che Babette li userà per tornare in Francia ella chiede umilmente di poter dedicare un pranzo alla memoria per i 100 anni dalla nascita del sant’uomo padre delle sorelle. I dodici abitanti del villaggio, seguaci di una vita priva di piaceri terreni saranno letteralmente sedotti ed inebriati dal pranzo che Babette, grande cuoca di Parigi, ha voluto organizzare e preparare per poter nuovamente esprimere il suo talento di artista. Per comprare gli ingredienti e le bevande, Babette ha speso tutti i propri soldi. Solo il vecchio generale antico innamorato di una delle due sorelle riesce incredulo a capire il reale valore economico del pranzo.
Babette decide di restare con le due anziane sorelle, senza più soldi in quanto spesi tutti per il gran pranzo, come quando era la grande cuoca a Parigi del Café Anglais e cucinava le pietanze più gustose ma anche più costose: era considerata un’artista della cucina, e tale vuol rimanere in questo sperduto paesino del Nord della Norvegia, nel tardo Ottocento, restando semplicemente artista, cioè se stessa, coi propri talenti, poiché gli artisti non sono poveri.
Sappiamo che Papa Francesco considera il film tratto nel 1987 da questo racconto, con titolo omonimo, Il pranzo di Babette, regista Gabriel Axel, vincitore del premio Oscar per il miglior film straniero, uno dei suoi film preferiti; di esso ha detto:
“Vi si vede un caso tipico di esagerazione di limiti e proibizioni. I protagonisti sono persone che vivono in un calvinismo puritano esagerato, a tal punto che la redenzione di Cristo si vive come una negazione delle cose di questo mondo. Quando arriva la freschezza della libertà, lo spreco per una cena, tutti finiscono trasformati. In verità, questa comunità non sapeva cosa fosse la felicità. Viveva schiacciata dal dolore, aveva paura dell’amore.”.
Evidentemente qui Papa Francesco non entra in contraddizione con quella che parrebbe la sua opzione fondamentale di carattere pauperistico: è attento anche alla ricchezza interiore delle persone, ai beni spirituali, forse ancor prima di quelli materiali: è più importante donare se stessi, col proprio carisma che ci fa essere autentici, autenticamente persone realizzate, illuminate, salvate, che donare le proprie ricchezze, anche se poi Babette pure spende tutti i suoi soldi vinti alla lotteria, per il pranzo che riconcilierà nello spirito tutta una comunità.
Ma va anche detto che lei stessa dichiara alle due sorelle anziane che lo ha fatto innanzi tutto per se stessa!, evangelicamente diremmo per continuare a spendere i suoi talenti, dissotterrandoli dal terreno delle oscure vicende storiche in cui si è trovata a vivere e da cui è scappata. Naturalmente questo non significa egoismo. Quello che compie la protagonista del racconto va poi tutto per il bene degli altri, realizzando un’azione d’amore, che la scrittrice, commuovendoci, descrive con immagine splendide, di luce, di gloria, quando lo spirito d’amore scende e lega e collega tutti i componenti la piccola comunità invitata al suo pranzo.
Se la MISERICORDIA vuol dire, come è, che DIO GUARDA AL CUORE DEL MISERO, misero può essere chiunque di noi: e forse non bastano nemmeno le SETTE OPERE che, a Napoli, il Caravaggio ha illustrato con la sua straordinaria magìa pittorica per rendere ragione di tutte le sofferenze che si potrebbero verificare in un mondo oggi così dilaniato: la quale magìa, che in quanto tale ci coopta in qualche modo e ci avvince già da spettatori, ci riporta alla realtà del vivere umano: la misericordia la si vive e attua non con dei semplici gesti di “carità”, ma iniziando a cambiare noi stessi nello stesso momento che operiamo nella misericordia per il nostro “prossimo”, immedesimandoci in lui, capendone la sua “realtà”!: che può essere chiunque incontriamo, giacché non c’è bisogno di andare a cercare i miseri: chi incontriamo per strada può essere il pover’uomo incontrato dal samaritano nella parabola evangelica.
Qui non vogliamo dare “ricette”, manuali, decaloghi: possiamo però indicare almeno una via: si potrebbe essere artisti del nostro vivere, vivendo MISTICAMENTE la Vita, con la V maiuscola: e per vivere pienamente la Vita dovremmo centrarci, centrare noi stessi, nel circolo vitale che comprende: la Divinità, lo Spirito; il Cosmo, la Natura, il Creato; le nostre anime, il nostro universo psichico, che è un mondo di relazioni con tante altre persone!
Naturalmente il racconto ci pone di fronte anche a significati del tutto laici, nel senso di slegati da un’opzione di fede religiosa, qualsiasi essa sia. Ne identificherei QUATTRO:
- l’artista che comunque deve donare se stesso e la propria opera virtuosa agli altri, pena il restare sterili, e il non comunicare;
- ci sono persone che possono insegnare ad altri come e perché apprezzare le cose buone e belle della vita;
- scoprire che sempre c’è una strada diversa da quella che si pensava, non arrendendosi negativamente, passivamente, pessimisticamente;
- la LIBERTA’ trova il suo cominciamento, sempre, da un atto gratuito, che diviene così atto di donazione amorosa; ogni mediazione materiale o meno, “lega”, invece di “slegare” in modo tale che la libertà possa anche difendere la verità.