Giovanni Testori nella crisi del nostro tempo
Un gran drammaturgo italiano, nonché scrittore poeta e critico d’arte, Giovanni Testori, previde in anticipo l’acuirsi della nostra crisi d’oggi portandola tutta nel suo osservatorio di uomo di teatro.
Cosi scriveva nel suo “manifesto” Il ventre del teatro (1968):
“Il peso eversivo del teatro è proporzionale alla sua capacità di distruggere le condizioni civili (storiche, sociali e politiche) di chi l’accosta, sia leggendolo, sia assistendovi. […] Il teatro , quando se ne tenti la realizzazione pubblica non può essere altro che il dilagare immenso e inarrestabile d’una vergogna; e, quindi, il verificarsi, altrettanto inarrestabile e immenso, d’uno scandalo. La lacerazione dell’ultima cellula di credibilità; ma non certo ideologica; la sua perpetua agonia. […] E’ la corrosione (o diminuzione) borghese che ha insistito sul valore di ‘spiegazione’, direi di ‘teorema’, del teatro, contro il suo valore di vitalizzazione per direzioni atrocemente inconscie e negative. […] Quanto più ci si allontana dall’indicibile e dall’insopportabile, tanto più ci si allontana dal ventre stesso del teatro…”.
In estrema sintesi questo è il Testori autore incivile, che mise in scena figli matri- e patri-cidi, drogati, assassini, sconfitti, emarginati, guitti scarrozzanti, monache puttane, regine infoiate e desiderose di maschi forti (come nei quadri di Francesco del Cairo, da Testori magistralmente osservati, studiati, riscoperti). Personaggi in parte da lui inventati, in parte tratti dalla storia o da altri testi, o dai suoi prediletti pittori del Seicento lombardo-piemontese, personaggi essenzialmente tragici e monologanti, che arrivano anche a distruggere gli istituti linguistici.
Ma qui ciò che m’interessa sottolineare è la metafora testoriana del “ventre del teatro”: se il teatro, anzi, i teatri sono come dei corpi, Testori punta al loro “ventre”, non alla testa, né al cuore, vale a dire, non all’elaborazione intellettuale e ideologica da una parte, non al sentimentalismo dall’altra. Punta a ciò che nel corpo del teatro è il grembo, il viscere, le interiora, l’utero, dove inizia la vita del teatro stesso, un “prima” che è prima di ogni ordine esistenziale, culturale, sociale, ideologico, prima di ogni ipostasi dottrinaria astratta. Punta dritto anche all’irrazionale, al dionisiaco, all’istintuale, al fisiologico. Per esprimere quanto di insignificante, assurdo, demente, e\o quanto di divino, amoroso, liberatorio, ha il vivere umano. Allora, se per civile intendiamo “educato”, “conformato”, “ordinato”, il suo teatro è senza meno “incivile”, perché nel fondo della coscienza dei suoi personaggi, nel ganglio iniziale del loro essere, vi è una sorta di deregulation, in cui si mischiano bene e male, demoniaco e divino, luce e oscurità, in cui proprio non si può de-finire precisamente cosa siano bene e male, e per intuirlo appena occorre giungere allo “scandalo”, alla “vergogna”.
Ma in fondo il problema non è etico, o filosofico, è essenzialmente “ontologico”, concerne gli esseri, noi, e l’Essere, e il rapporto tra gli enti e l’essere, che rimane insolubile, interrogante, angosciante, a meno che a livello “esperienziale” l’essere non venga identificato con un Dio, non sia cioè materia di fede (l’ultimo Testori). Fede? Si, certo, non restringiamo l’idea di fede nel campo semantico della religione: si può avere fede nella scienza, nel progresso umano (marxismo, capitalismo, liberalismo, ecc.), si può aver fede nel nichilismo, cioè nell’assenza di ogni fede, si può aver fede in noi stessi, nella nostra intelligenza, nelle nostre abilità, nel nostro denaro; nel laicismo, nel materialismo, nello spiritualismo. Certo, si può avere anche una fede religiosa (re-ligare=cum-legare, legare assieme…), perché l’avere una qualsiasi fede è un dato antropologico essenziale (aver fede, però, non significa identificarla con queste o quelle “credenze”, con quelle o queste dottrine). Non interessò, dunque, a Testori la dimensione “civile”, il vivere della polis? Nella sua opera forse che non c’è stata traccia di un interesse per la vita della città? Si, c’è stata, sia nel suo teatro scritto, che nei testi in prosa. Ma la sua percezione di tal vivere lo ha portato verso un giudizio di in-civiltà, essenzialmente dovuto al proliferare della tecnoscienticrazia, del trionfo della mentalità economicistica, del profitto ad ogni costo, del privatistico egoismo, del consumismo miasmatico e distruttore: tutte malattie che secondo lui investivano qualsiasi cittadino, a qualsiasi classe o ceto appartenesse: il trionfo di una vita virtualizzata, ad esempio, per il Testori degli anni Ottanta-Novanta, avrebbe portato al parallelo trionfo di una vita astratta, de-corporeizzata, dis-sanguata (e solo il teatro a quel punto risultava essere un punto estremo di resistenza). E’ per questo che i suoi personaggi, rielaborati dalla sua invenzione scritturale, rappresentavano le vittime prime di una vita così “incivile”. E’ un Testori apocalittico, quello che negli ultimi anni di vita, non coltivava quasi alcuna speranza di un riscatto, di un armonico vivere civile, di una ricerca di concordia (cum-cordis); ed era un Testori che non credeva nemmeno alle capacità “tecniche” e “razionali” utili alla ri-costruzione della compagine civile (anche la chiesa cattolica si era troppo “sociologizzata”). In fin dei conti quello di Testori fu in forte misura un teatro “incivile” per un paese “incivile”: frutto di un omosessuale mangiato dai rimorsi e dai sensi di colpa? Di uno scrittore messo al margine sotto certi punti di vista? Di un uomo malato e indebolito? Non credo, o lo credo solo in parte, quella inevitabile, forse. Poiché credo che non ci sia alcun dubbio sull’enorme crisi del mondo d’oggi, che proviene da millenni di storia, una storia-macelleria (v. Hegel), e dal monopolio di poteri che stanno distruggendo la nostra casa comune globale: tragicamente forse non c’è più rimedio, chissà! Ma non voglio ipotecare negativamente la capacità umana di inventare e provare nuove strade, nonostante o magari a causa di un VIRUS! Certo, occorre una profonda trasformazione, si chiami “decrescita sostenibile”, “disarmo planetario”, rispetto delle culture “locali”, abbandono della mentalità occidentale “colonialistica”, e così via. Occorre concepire ogni dimensione del vivere umano come “relazionale”, non assolutizzando monoliticamente nessun valore (non c’è, quantisticamente scrivendo, alcuna cosa in sé): pensiamo ad un accordo musicale, dove nessuna nota di per sé risuona da sola, ma tutte ri-suonano assieme: bisogna insomma praticare l’arte della ri-sonanza, mettere in relazione anche gli opposti: praticare anche gli atti barbarici per superare la barbarie. Occorrerebbe praticare il pensiero del cuore, sapendo che non tutto è razionalizzabile, e spingono in noi anche energie appunto viscerali. Spingono in noi anche dei sentimenti, e nel teatro cosiddetto civile, per davvero, essi sono innanzi tutto il senso di giustizia e di libertà, la difesa della memoria “lunga”, e la capacità di com-patire gli altri, in quanto sono comunque parte di noi stessi, sia che li accogliamo sia che li respingiamo. Occorre una forte sensibilità per valori che trascendono i singoli individui, sapendo che tali valori sono sempre e comunque in discussione, sempre e comunque necessitanti una “con-divisione”: ma ogni traguardo è sempre sul punto di spostarsi più in là. Allora credo che al teatro civile (o incivile che sia, perché gli aggettivi indicano due modi diversi e complementari di agire) occorre quella consapevolezza espressiva e semantica che eviti ogni sicumera ideologica e di critica del reale e dell’umano; occorre la sensibilità di abitare zone sfumate, chiaroscurate; occorre il dono dell’espressività metaforica, che renda polisemico il puro dato documentale; occorrono attori che sono mondi-segno, in quanto partecipanti in prima persona e profondamente, delle ingiustizie, del dolore, della emarginazione, della libertà, mostrate (non dimostrate) nella loro scena.