DUE GRANDI REGINE NELLO SGUARDO TEATRALE DI DACIA MARAINI
(da “ La pagina, lo sguardo, l’azione. Esperienze drammaturgiche italiane del ‘900 ”, Roma, Bulzoni, 2019, di Giorgio Taffon )
Le due regine, Maria Stuarda di Scozia ed Elisabetta I d’Inghilterra, nel testo drammatico di Dacia Maraini Maria Stuarda, risultano personaggi dotati di un fervore analitico e autoanalitico, di un’insopprimibile spinta all’indagine di se stesse, della propria interiorità, entrambe spietate nel volersi conoscere sempre più e nel demolire a tratti la costruzione di un sè determinata dagli interessi degli altri, dal destino, dalle convenzioni, dall’esercizio del potere: Maria Stuarda più capace di slanci sentimentali, di liriche accensioni (canta e recita versi), di immaginazione ed elaborazione oniriche, pur se la sua stessa capacità di amare si è rivelata inconcludente, perché troppo furiosa e maldestra, addirittura infausta; Elisabetta ancorata, se vogliamo, al “principio di realtà”, che è in definitiva la sua totale dedizione al regno, la sfiducia radicale nella possibilità dello scambio amoroso (se non quello poco impegnativo con giovani che non creano rapporti obbliganti), la sua sublimazione di una a-sessualità come virtù dell’essere vergini, quindi di un’intoccabilità che si fa superiore distacco anche dalle gioie e dai piaceri carnali, certo, ma ancor di più dalla vita di ogni altra persona.
La Maraini non poteva certo evitare o dimenticare alcuni presupposti che la tradizione storica e l’elaborazione artistica (compresi il melodramma e il cinema) ci hanno tramandato sulla tipologia delle due regali personalità: la fierezza di entrambe; l’esuberanza emotiva di Maria Stuarda; la capacità di essere spietata di Elisabetta, e così via. Piuttosto ha tentato, con successo, di penetrare con il suo sguardo nella loro interiorità di donne, o meglio, ha ricreato un loro mondo interiore ed esistenziale, proiettando in esso temi e motivi della sua elaborazione culturale e della sua riflessione sulla condizione femminile. Tant’è che la dimora-prigione di Fotheringay, dove fin dall’inizio della pièce si trova Maria Stuarda nell’imminenza della condanna, in attesa di un riscontro positivo dalla cugina Elisabetta al fine di poterla incontrare, di fatto è un luogo mentale, piuttosto che uno spazio fisico, materiale. In esso lo sguardo interiore del personaggio può fissare e sviluppare pensieri fermi e convinti, sentimenti e stati d’animo definitivi; si delinea così una suite di immagini che offrono al lettore la coerenza di una storia e il senso globale di una vicenda. Ѐ per questo che la drammaturga non indica didascalicamente, se non implicitamente e in modo poco allusivo, realistiche connotazioni di spazio e tempo della finzione teatrale: le due regine e le loro accompagnatrici, abitano metateatralmente lo spazio della convenzione scenica, sono attrici di se stesse, tramite la parola: ogni connotazione teatrale e spettacolare è lasciata modernamente alle eventuali invenzioni della regia e dell’interpretazione delle attrici.
Il dialogato delle due coppie risulta così molto denso (com’è proprio della testualità drammatica che deve far dire molto con poco), costruito su una sintassi paratattica, al punto che risulta difficile il gioco delle citazioni da parte di un lettore critico: in questo caso la critica del testo può apportare dei risultati degni operando su macrostrutture, per sintesi e per brevi esemplificazioni.
Se Maria Stuarda, ad esempio, ripercorre soprattutto il proprio passato, Elisabetta è molto più legata all’analisi del suo vivere presente; se la prima riconosce che fin dalla sua infanzia tutto era già stato scritto e tutto, amore, matrimonio, maternità, sentimenti soprattutto, doveva essere sacrificato a ruoli e funzioni politiche e religiose tragicamente determinatesi, chiedendo quindi solo di morire con estrema dignità, da vera regina ancora regnante, Elisabetta, invece, assumendo anche lei la sua vita come disegno prestabilito, sa che, stando sempre ben radicata nel presente, permetterà al suo regno di preservare l’Inghilterra e tutelare il distacco dal papato romano. La sua indagine psicologica ed esistenziale è tutta volta a dimostrare che in realtà le sue non furono rinunce; la sua regalità, interpretata genialmente, socialmente ed economicamente illuminata, capace sia di meschine furbizie che di coraggiosi atti di diplomazia, è la sua unica, vera gratificazione, quasi per una sorta di libido gubemandi che assorbe ogni impulso e pulsione; mentre l’amore, ancor più quello coniugale, secondo il suo pensiero, rende schiava la donna e la maternità ha significato solo per la successione (così si rivolge a Nanny: “Non pensate ad altro, voi donne;… il matrimonio, i figli… a qualsiasi costo… contro qualsiasi umiliazione… volete rotolarvi nel fango dell’umiliazione […] Hai venduto la tua verginità, la tua solitudine, il tuo orgoglio per una voglia sciocca e melensa di famiglia!” (p. 26); la bellezza fisica si perde col fuggire del tempo; i legami di sangue, in primis quello fra lei e la cugina scozzese, di fronte alla volontà del popolo, alla legge e a Dio, vengono meno (ma lo stesso padre, Enrico VIII, è solo giudicato per le sue azioni, non suscitando in lei la minima dinamica affettiva). Nel lungo monologo politico ad inizio del secondo atto così chiude le sue riflessioni: “[…] voglio dire che considero mio sposo e marito solo il regno d’Inghilterra… e miei figli tutti i sudditi di questo regno…”.
Dal canto suo, e specularmente invertito rispetto ad Elisabetta, è il comportamento di Maria, quando, subito dopo il monologo di natura politica della cugina, qui su citato, imbastisce il dialogo, assumendone la voce, col reverendo Knox, che la invita a rinunciare alla corona, in quanto inadatta ad una funzione che esige autocontrollo e attenzione alle esigenze della casa regnante, a partire dal suo ruolo di madre che assicura la successione al trono; Maria difende il suo modo d’intendere il governo, e un suo stile regale al femminile che non rinuncia all’espressione libera, gioiosa, sfrenata di sè stessa, ad una dimensione dionisiaca che ha nel canto e nel ballo manifestazione privilegiata: “[…] il ballo è armonia, Knox, il ballo è delizia, il ballo è gioia, il ballo è vita, il ballo è amore… e io ballo ballo ballo…”.
E anche nell’esperienza della maternità le due regine esplicitano posizioni opposte: Maria madre lo è (del futuro re d’Inghilterra, Giacomo), mentre Elisabetta accetta che il suo ventre sia vuoto “come una vuota caverna buia”; Elisabetta nei confronti della maternità esplicita un distacco e un giudizio freddamente razionale in nome di ideali ritenuti superiori; Maria, nel parlare del suo essere madre, del suo atto generativo, della sua esperienza di partoriente, usa un linguaggio fortemente fisico e fisiologico, affidato alla figura retorica dell’ipotiposi per una resa descrittiva e realistica, in cui quella che fu la sua solitudine nel dare alla luce il bambino (“mi hanno lasciato sola, con tutto il sangue che perdo”) assume il valore simbolico di un lavacro di sangue, in cui biblicamente le doglie e il parto sono una punizione e il dolore un prezzo da pagare altissimo e ben poco remunerativo. Come pure fuori misura è stato il prezzo pagato nell’unirsi al conte di Bothwell; unione come “stupro meditato a sangue freddo per costringermi a sposarlo”; e ancora una volta, come molti altri personaggi della narrativa e del teatro della Maraini, il tema dello stupro porta allo scoperto quella differenza incolmabile fra aspettativa d’amore, abbandono al corpo amato, e volontà di dominio del maschio, nel caso della Stuarda portato all’eccesso perché a essere violata è la sua stessa regalità: la violenza di Bothwell è superiore perfino all’autorità costituita e riconosciuta; è per questo che, le ricorda Kennedy, l’opinione comune ha finito per incolpare proprio e solo lei.
E nel segno della colpa agisce, nei confronti di Maria, la stessa Elisabetta, nonostante voglia essere “un leone, non un roditore”; costretta dall’insistenza dei servizi segreti a condannare la cugina, sa che proprio questa sua decisione costituirà il suo punto di perdizione, non tanto perché tale decreto va contro valori morali, o perché spezza dei rapporti affettivi parentali, non solo perché le prove della “cospirazione di Babington” ordita, con altri dignitari, dalla cugina non sono affatto sufficienti (anzi, la storiografia più accreditata nega la sua partecipazione), ma soprattutto perché frantuma il nucleo centrale di un loro possibile rapporto, scioglie il nodo che le legava e intrecciava come figure femminili, poiché, come afferma la Stuarda, “i legami fra le donne sono i più forti e i più tenaci”. E come se la decisione di condannare la cugina accendesse improvvisamente in Elisabetta il senso del suo essere donna tra e con le donne, non più o non solo regina che è anche al di sopra o al di là del suo genere.
Di ciò è ancor più consapevole Maria e difatti nella scena in cui essa sogna d’incontrare la cugina Elisabetta il dialogo, esauriti i motivi di conflitto politici e religiosi, si apre ad uno scambio effusivo di sentimenti concilianti e addirittura scherzosi, sotto l’egida di un rapporto intimistico e confidenziale, ma comunque chiuso nel segreto di un desiderio non soddisfatto, appunto solo sognato…