A proposito di “Natale in casa Cupiello” di Eduardo De Filippo


La recente versione, come film per la televisione, di “Natale in casa Cupiello” di Eduardo De Filippo, interpreti principali Sergio Castellitto e Marina Confalone, regia di Edoardo De Angelis, ha dato luogo a molte polemiche sulle quali in questa sede non desidero entrare.
Credo, però, che le annotazioni che seguono possono suggerire un giusto equilibrio fra interpretazioni d’oggi e non tradimento o, peggio, travisamento, del testo eduardiano; e ciò non dimenticando i contributi importanti di studiosi quali: Anna Barsotti, Nando Taviani, Claudio Meldolesi, Andrea Bisicchia, e altri reperibili nelle bibliografie più attente.
Se teniamo presente uno dei principi basilari di poetica teatrale del nostro drammaturgo, e cioè che nei suoi testi contano più le conseguenze derivanti dai fatti che i fatti stessi, o meglio, gli antefatti, non possiamo non ricordare che tutta la vicenda rappresentata in questo testo prende le mosse da una decisione gravida di effetti laceranti presa dal protagonista Luca Cupiello e dalla moglie Concetta nei riguardi della figlia Ninuccia, e cioè quella di spingerla, controvoglia, a sposare il benestante Nicola, nella speranza di migliorare lo status economico di tutta la famiglia. In tale progetto l’autore proietta i desideri di una piccola borghesia e delle classi popolari più povere che, fra le due guerre mondiali, aspirava a scalare dei gradini più alti della scala sociale (oggi si direbbe “ascensore sociale”); e ciò anche a costo di pagare grossi dazi sul piano dello sconvolgimento dei modelli tradizionali della famiglia. Da lì inizia una sorta di COMMERCIO DEI SENTIMENTI, che segnerà tutto lo svolgersi della pièce; quella forzatura si ritorcerà contro la famiglia, giacché Ninuccia finisce di innamorarsi di Vittorio e questa relazione fa da detonatore per minare l’unità familiare. Situazione che porta, cosa essenziale in Eduardo, a far deflagrare il registro tragico scompaginando il tessuto drammaturgico d’impronta comica, che, o poco o tanto, è sempre presente nella concezione della tradizione teatrale eduardiana (e napoletana).
Luca nel suo essere marito, oltreché padre, ovviamente, vive il suo rapporto con Concetta, donna pratica, che sa guardare in faccia le difficoltà, nella dimensione dell’usura dell’istituzione matrimoniale, e si rifugia nel suo fanciullesco, utopistico, perdente interesse per il presepio natalizio. Al punto che Eduardo fa dire a Concetta che il marito “nun ha voluto e nun ha saputo fa’ maie niente. In venticinque anni di matrimonio m’ha nguaiata na casa.”. Non si salava nemmeno il figlio maschio Tommasino, il quale dimentica i legami affettivi dato che è sempre pronto a rubacchiare qualcosa allo zio Pasquale, addirittura speranzoso della sua morte per poterne avere qualche vantaggio materiale. In questo interno di famiglia popolare napoletana, Ninuccia non sa assumere una posizione decisa ed esplicita per risolvere il suo rapporto coniugale, affidando la sua azione ad una lettera al marito in cui gli comunica la sua intenzione di lasciarlo. Alla fine del primo atto, divenuto a conclusione dello sviluppo del testo definitivo (forse nel 1943) vero e proprio prologo della vicenda, quest’ultima potrebbe apparire come il quadro di una famiglia in crisi che si dà una tregua di pace in occasione del Santo Natale, volendo così l’autore contrassegnare la scrittura col registro comico-umoristico. Però avviene disgraziatamente la fatidica “distrazione”: Luca, dopo che la moglie si è riavuta dallo svenimento per la decisione di Ninuccia di lasciare il marito, consegna al genero la lettera che la giovane avrebbe voluto consegnargli, finita sotto il letto a causa del trambusto per il malore materno.
Il teatrale colpo di scena va oltre i qui pro quo di natura farsesca, e prepara lo scoppio del dramma nel secondo atto, quando gli eventi e i fatti che accadono mettono in fuorigioco la possibilità e la volontà di intervenire da parte di Luca. Cosicché viene scavalcato dai fatti, messo al margine di quanto avviene nella famiglia; c’è in lui un’insanabile frattura fra la sua coscienza e la possibilità d’agire; se agisce, agisce male, finendo per essere un passivo antieroe. Alla fine del secondo atto, quando accade l’irreparabile, avendo Nicola drammaticamente preso atto della situazione, e di essere stato tradito nei sentimenti, Luca, in un ulteriore colpo di scena di grande valore poetico, entra in scena col figlio e con il fratello Pasquale, truccati da Re Magi per portare i doni ad una Concetta disperata: la candida s’accompagna alla nera e dolorosa consapevolezza di Concetta in una LOGICA DEI CONTRARI di alta poesia scenica, in cui riso e pianto, commedia e tragedia si fronteggiano per confondere ed esaltare le nostre emozioni di lettori e spettatori. E si capisce come ormai Eduardo si avvia così verso la pessimistica e ombrosa drammaturgia della Cantata dei giorni dispari.
Il terzo atto conclude la storia della famiglia Cupiello attraverso alcuni nodi-snodi:
1 La paralisi di Luca con il coro familiare che gli rende quell’affetto rispettoso prima negato (col passaggio comico fenomenale del racconto memoriale di una luculliana e terapeutica mangiata dei fagioli).
2 A Luca resta ancora il tempo per un’ultima grottesca gaffe dal duplice sapore: scambia Vittorio, l’amante della figlia, per Nicola, e unendo le mani del giovane con quelle della figlia li prega di far pace in sua presenza: ancora una volta non è un “atto mancato” quello che colloca fuori dalla realtà delle cose il protagonista (come in altri antieroi della letteratura novecentesca, tipo lo Zeno di Svevo), ma un “atto sbagliato”, inconsapevolmente orientato su un obiettivo, questo sì, clamorosamente mancato. Viene da chiedersi: se negli anni della stesura del testo ci fosse stata una legge per regolamentare il divorzio? Si potrebbe rispondere allora che per Eduardo la morte di Luca è anche il segno di una condanna verso le leggi e le strutture sociali e istituzionali.
3 Solo Tommasino comprende la sconfitta paterna per cui gli riconosce la sua bontà di carattere, la sua innocenza, passiva però, di padre: le virtù paterne trovano sempre meno spazio nel mondo, nonostante il ciclico ripetersi dei Natali, rituali sempre più svuotati di significato, se non quello di una civiltà secolarizzata, consumistica, nichilista.
Eduardo continuerà, dopo il Natale della sua commedia, a rappresentare la possibilità di una società concorde ed armoniosa (il binomio di Panikkar: “Concordia e armonia”), senza “candida ignoranza” ma consapevole dell’estrema difficoltà del compito.
La speranza finale di “Natale in casa Cupiello” consiste dunque nella volontà di far seguire al senso della Nascita quello personale e collettivo di una possibile Ri-nascita, arginando la deriva del teatro occidentale verso una radicale e luttuosa “afasia” per la perdita della centralità del Soggetto, e forse per la morte stessa del teatro e dell’arte, quella autentica e necessaria, quella che si rende consapevole degli effetti prodotti dal confondere il piano della realtà con quello della fantasia e dell’illusione. Si ripresenteranno, nella Cantata dei giorni dispari, anni ‘50-‘70, padri, mariti, e anche sindaci impegnati a instaurare una nuova fiducia nel vivere familiare e civile.

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