EDUARDO NOSTRO CONTEMPORANEO

NAPOLI MILIONARIA! in televisione

 “Napoli milionaria!”  su Raiuno 18/12/2023

(con V. Scalera, M. Gallo):   le ragioni del testo

 In imminenza, ad horas, della trasmissione televisiva di Napoli milionaria! (protagonisti Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo, regia di Luca Miniero, Raiuno) desidero stilare alcune annotazioni sul testo di Eduardo, ora affidato a dei bravissimi attori. Questo perché, riconosciuta a qualsiasi interprete la libertà di invenzione e ricreazione di un’opera scritta del passato, prese le debite distanze dallo stile recitativo eduardiano, occorre comunque, a parer mio, capire le ragioni creative, i presupposti culturali, gli strumenti tecnici, con cui un autore del calibro di Eduardo De Filippo ha concepito la sua opera.

Ricordo che: Gennaro Jovine, sua moglie Amalia, i figli Maria Rosaria, Amedeo e la piccola Rituccia, sono i componenti del nucleo familiare di Napoli milionaria!; attorno a loro, in uno spazio privato-pubblico, vive la comunità del <<vascio>>. Da subito Gennaro appare come padre e marito <<detronizzato>>, se nella stessa didascalia d’apertura la sua casa è <<proprietà>> della moglie: <<’O vascio ‘e donn’Amalia Jovine>>. Siamo, al primo atto, in pieno clima bellico, nel secondo anno di guerra, didascalicamente il ‘42 (mentre i due atti successivi si svolgono dopo lo sbarco degli Alleati, quindi con un ellissi temporale di circa un anno);  la famiglia si arrangia come può, sfruttando soprattutto il piccolo commercio con la borsa nera gestito da Amalia, donna pratica, dominante, fino al punto d’infrangere la legge, in combutta con quello che è il suo spasimante, Errico <<Settebellizze>>. Gennaro, tramviere disoccupato, che ha eletto a suo personale rifugio un piccolo anfratto della casa, da dove  <<filosofeggia>> inascoltato, non è d’accordo con quei traffici; ma, come già per il Luca Cupiello di Natale in casa Cupiello, la sua presa di coscienza non si fa azione, al punto che è costretto, nel finale del primo atto, ad inscenare, in un passaggio memorabile, una finta veglia funebre, con lui finto <<morto>>, quando il brigadiere Ciappa viene a perquisire la casa e, tra morte finta e morti vere, per un improvviso bombardamento, in un contrasto assieme comico e altamente drammatico, gli promette di non denunciarlo a patto di dichiarare la sua finzione. 

   I monologhi di Gennaro sulla borsa nera, sul comportamento dei governanti, sui perché della guerra, intarsiati di un linguaggio pseudo intellettuale dove risalta un italiano standard, o regionale, misto ad un dialetto in funzione espressivo-sentimentale, preannunciano la principale forza, quella locutoria, del protagonista, che esploderà nel terzo atto, mentre, all’interno del primo, il suo monologare è quasi sopportato, o mal capito, sul piano comunicativo, dalla posizione defilata, seminascosta che si è scelto Gennaro all’interno dell’abitazione.

   Chi è il personaggio Gennaro Jovine che  si presenta in partenza come personaggio <<perdente>>, anche se ha una buona capacità riflessiva e di ragionamento? Egli possiede una sua saggezza tutta meridionale, da <<Pupo>>, o collodiano “Grillo parlante”; soprattutto durante tutto il primo atto è un personaggio che pur <<in guerra>>, in conflitto con l’ambiente in cui vive, lo subisce passivamente; non ha obiettivi da poter  raggiungere, al contrario della moglie Amalia, vera protagonista in avvio di commedia. La chiusura del primo atto sancisce tale conformazione del personaggio quando per l’ennesima volta è costretto malvolentieri a fingersi morto nel letto-catafalco; certo, la sua consistenza morale, la sua profonda onestà, che dà fastidio agli altri, è la sua vera dote. Qui Eduardo, senza dubbio, avendo già collaborato con Pirandello, usa la tecnica pirandelliana di presentare il personaggio principale non ancora protagonista, per farlo divenire tale negli atti successivi.

    Col secondo atto, infatti,  Eduardo imprime una svolta: la necessità impellente di dar voce, drammaturgicamente, ai suoi pensieri e sentimenti sul tema sconvolgente della guerra. La poesia teatrale di Eduardo è da subito organicamente fruita da un pubblico che le cronache e le testimonianze dicono commosso, sconvolto, coinvolto direttamente, sorpreso da un attore che, pur in una lingua scenica dialettale, pur con alle spalle una tradizione comica di antico lignaggio, raggiunge, col suo personaggio Gennaro, sul punto di essere travolto con tutta la famiglia dal clima e dalle sventure belliche, una profonda verità poetica.

   Eduardo, quindi, da attore che scrive, delinea un personaggio che deve stare nelle sue corde recitative. È quindi il teatro concreto, è la scena, che guidano la drammaturgia scritta: Gennaro non può dunque essere tout court un personaggio tragico: nel precisissimo realismo della finzione scenica, questo protagonista compie la sua metànoia rappresentando la vicenda di un piccolo borghese napoletano <<normale>>, che si trova a vivere una situazione più grande di lui, e riesce a trarne una lezione che, pur con estrema difficoltà, deve comunicare agli altri, per la salvezza di tutti. Diviene un personaggio <<pensante>>, <<riflessivo>>, <<critico>>, offrendo così al suo interprete scenico nuove dimensioni recitative, attoriali, mimiche e gestuali (con  l’esaltazione dei famosi <<silenzi>>). Eduardo colloca tra primo e  secondo atto un’ellissi temporale di circa un anno, durante la quale Gennaro, portato via da Napoli fortuitamente da un commando nazista, peregrinerà tra campi di battaglia, prigionieri, vittime, fucilazioni, rovine: se prima in un certo senso <<sproloquiava>> sulla guerra, ora, le sue parole si basano su un’antiretorica: quella di chi ha vissuto la guerra dal <<basso>> come esperienza personale, fisica, immediata, che svuota il giudizio di intellettualismi e ideologismi, perché in pericolo ora è l’integrità del singolo e della sua famiglia, non di un eroe tragico; la maggior consapevolezza è che l’enormità della guerra trovi un traslato più privato, ma non meno sconvolgente, nella vita sua e di chi gli è vicino, tant’è che la sua frase-tormentone sarà: <<’a guerra nun è fernuta>>. E credo che, oggi come oggi, COME BEN SAPPIAMO, ANCORA NON LO SIA, SEPPUR FRAMMENTATA IN TANTE PARTI DEL MONDO!

Certo, anche dal punto di vista tecnico Eduardo dà una grande dimostrazione di come drammaturgicamente si compie non solo la caratterizzazione del personaggio, ma anche la sua preparazione, in correlazione col lavoro d’attore.  Dunque, le cose cambiano in peggio quando, nel secondo atto, tutti credono che Gennaro sia morto per davvero, essendo sparito all’improvviso e mancando da molti mesi. Lo sbarco alleato è avvenuto, e la famiglia Jovine, arricchitasi con la borsa nera, sembra aver perso la testa: Amalia ha stretto rapporti con Errico; sfrutta impietosamente il ragioniere Riccardo Spasiano che deve mantenere tre figli e rischia di rovinarsi economicamente; la figlia Maria Rosaria è rimasta incinta nella relazione con un militare americano; il figlio Amedeo si è unito ad una gang che ruba auto e pneumatici; della Napoli semidistrutta essi sembrano mostrare, ironicamente, la facciata <<milionaria>>. Ma, appunto, all’improvviso Gennaro riappare, <<reduce>> da lunghi mesi di prigionia, come uno dei reduci straccioni di ruzantiana memoria. Ha molte cose da dire, molto ha imparato da quella devastante esperienza, ma ancora una volta nessuno lo vuol ascoltare; tutti sono infastiditi da chi può mettere in crisi quel loro stato momentaneo di sfavillante ricchezza e soprattutto la loro coscienza e il loro incipiente distacco da tradizioni che il travolgente mutare dei tempi sta mettendo in profonda crisi. All’ottimismo del figlio oppone la convinzione che <<’A guerra nun è fernuta…>>, intendendo la guerra come rovina dei comportamenti e dei legami socio-familiari,. E difatti Gennaro dovrà combattere per impedire al figlio di trasgredire la legge, usando le sue convinzioni e la sua nuova capacità di porgersi agli altri recuperando il suo ruolo di padre: <<Nun s’addeventa mariuolo pe’ via d’ ‘a guerra. […] Mariuolo se nasce. […] ‘o mariuolo è mariuolo solamente.>>. Dovrà combattere, comprimendo la sua rabbiosa delusione, contro la situazione della figlia, senza mortificarla, ma accettandone il suo stato di futura ragazza madre per impedirle il rischio della prostituzione.

Più di tutti dovrà combattere contro il tipo di vita assunto dalla moglie, in un memorabile monologo che precede la fine del dramma, mentre la loro figlioletta Rituccia rischia di morire, e che spinge la moglie ad una metànoia interiore con gli strumenti della comprensione e della tolleranza, senza pregiudizi: <<Primma ‘e tutto pecché nun è colpa toia, ‘a guerra nun l’he voluta tu, e po’ pecché ‘e carte ‘e mille lire fanno perdere ‘a capa.>>. Ora la famiglia è riunita, il gesto generoso e sorprendente del ragioniere, angariato da Amalia, che ha portato la penicillina, si spera salvi la vita di Rituccia; ormai <<S’ha da aspettà, Ama’. Ha da passà ‘a nuttata.>>, e fiduciosamente. Finale, come tanti altri, di significato ambiguamente plurivoco, giacché Rituccia potrebbe anche non farcela, e quindi quello di Gennaro è sostanzialmente un atto di speranza. Fiducia anche nella resurrezione dell’Italia, perché Gennaro aveva visto in Rituccia l’analogia con il futuro del Paese, futuro legato alla trasformazione di tutti: cittadini, amministratori, politici. Come Gennaro è in attesa che passi la notte, così Eduardo resterà sempre in attesa che spunti, in un orizzonte storico-sociale e nella concretezza del vivere, una possibilità di riscatto, comprendendo, forse, che quando il sogno, l’illusione si radicano nella realtà effettuale, finiscono per assumerne gli stessi tratti cogenti e costrittivi.