Su “Porcile” di P. P. Pasolini
<<Più cuore che testa>> per Porcile (e per il teatro di P. P. Pasolini)
Mi sembra che pochi dei commentatori e studiosi del teatro pasoliniano, hanno sottolineato, mettendole in parallelo coi testi, diverse preziose ed ermeneuticamente indispensabili, per la comprensione dei testi, pagine del Pasolini corsivista, o elzivirista, o commentatore della vita socioculturale italiana.
Mi riferisco in particolare a Il caos, raccolta di articoli scritti per il settimanale <<Tempo>> (anni 1968-1970), e a Scritti corsari, che raccoglie interventi pubblicati per lo più sul <<Corriere della Sera>>, sul <<Mondo>>, su <<Panorama>> negli ultimi anni di vita dello scrittore, quindi fino al 1975. Le chiavi di lettura e interpretazione usate da Pasolini per aprire le sue verità sulla situazione italiana, e non, dal processo di <<mutazione antropologica>> del popolo italiano, al degrado della società di massa e dei consumi che è risultato essere un genocidio delle classi contadine e sottoproletarie, quelle del <<pane necessario>>, quindi <<necessarie>>, non contrassegnate dalla superfluità dei beni consumistici, al <<nuovo>> fascismo, al linguaggio dei corpi <<mutati>> e della sessualità come linguaggio della natura esistenziale della persona, e dell’omosessualità come <<tragedia personale>> quando non è accettata in quanto diversità, alla stessa diversità intellettuale e culturale di chi, come il poeta, vive in un contesto inevitabilmente borghese senza appartenervi, e facendo di tale contraddizione segno di scandalo e di autosacrificio, le chiavi di lettura, dunque, sono lucidissimi tratti autoanalitici anche di temi e problemi appartenenti alla stessa scrittura drammaturgica, quelli di un personaggio-Pasolini che ha fino all’ultimo voluto autorappresentarsi e parlare figuratamente (dantescamente) nel teatro del mondo. Naturalmente non si vuole qui negare l’apporto comunque arricchente di chi, nella testualità teatrale di Pasolini, ha individuato sottotestualità assai significative: mi fermo alla lettera, e allora molti dei nodi di primo acchito oscuri, irrisolti, contraddittori, delle sei <<tragedie>> pasoliniane, alla luce di quelle pagine giornalistiche, vengono sciolti e ci aiutano almeno, e non è poco, a comprendere la lettera, la superficie, ma non solo. È il caso, in particolare, dell’articolo Più cuore che testa (uscito sul “Tempo”, 4 ottobre 1965; traducibile immediatamente anche nell’araldico emblematico pasoliniano <<passione e ideologia>>, dove la passione s’infiamma ulteriormente nell’ultima stagione del poeta) esplicitamente riferito al film Porcile, ma estensibile al testo teatrale che rinvia direttamente alla seconda e più importante parte della sceneggiatura.del film. L’articolo è una polemica e articolata critica al giudizio di Domenico Meccoli che aveva accusato Pasolini di oscurità e ininterpretabilità.
Riporto qui, per chiarezza, la fabula del testo drammatico.
Siamo in Germania, nella goethiana Godsberg, trasformatasi in <<Atene di cemento>>; qui vive Julian Klotz, erede di un immenso impero economico e industriale; il giovane è bloccato dall’inerzia e dal mutismo da cui non riesce a smuoverlo nemmeno l’attenzione anche sentimentale di Ida, giovane alto borghese. Il padre di Julian, un padrone umanista di vecchio stampo, si associa col suo maggior rivale, Herdhitze, che da scienziato nazista si è trasformato in tecnocrate di nuovo tipo: e così è dal connubio tra il vecchio e il nuovo capitalismo che scaturisce il moderno potere tecnocratico. A suggellare l’alleanza sarà un ricatto reciproco, di cui Julian Klotz è lo strumento. Infatti, il giovane è posseduto da un’attrazione incontenibile per i maiali del porcile situato nelle campagna di famiglia, coltivata da un gruppo di contadini poveri, e immigrati, per lo più italiani, divenuti rispettosi amici del ragazzo; il silenzio reciproco dei due magnati, sul passato nazista dell’uno e sulla zoofilia perversa del rampollo dell’altro, garantisce l’intesa. Julian, però, ha predisposto la propria morte come un martirio nella vergogna e nello scandalo e si lascia sbranare dai maiali. A ciò viene consigliato dal primo filosofo della ragione, Spinoza, apparsogli dinanzi, che abiura la propria opera rintracciando in essa l’inizio dell’epoca borghese e il sostegno etico del nuovo mondo neocapitalista.
Torniamo all’articolo pasoliniano, e al suo, è il caso, <<cuore>>, dove l’autore afferma: <<Quel po’ che c’è da capire ‘sotto’ il film, è detto a chiare lettere nelle due lapidi iniziali: la società non divora solo i figli disobbedienti ma anche i figli indefinibili, misteriosi, cioè né obbedienti né disobbedienti’ […] Poi viene il film, e per capire il film, bisogna avere più cuore che testa (certo se c’è anche la testa, meglio); perché c’è da capire la disperata storia di un peccatore che fa del peccato la sua santità; c’è da capire una straziante storia d’amore impossibile con uno straziante addio; c’è da capire un rapporto ambiguo e drammatico tra vecchio capitalismo e nuovo che si conclude, anche se nei toni di una poesia contemplativa, con la condanna ad ambedue.>> (corsivi miei). Dal film al testo teatrale, senza salti, ché l’omologia è nelle cose, certo, con la parola davvero protagonista, più che nel film (anche se la sceneggiatura rispetta sostanzialmente il dialogato teatrale): lo <<strazio>>, la <<disperazione>>, <<l’impossibilità amorosa>>, la <<drammaticità>>, la poesia <<contemplativa>> sottolineati e richiamati ad un’attenzione prioritaria dall’autore, sono l’ineliminabile segno di un’urgenza che è il vero lievito della drammaturgia pasoliniana, non solo quella di Porcile; a ben vedere se teoricamente quello voluto nel ’68, col suo manifesto, doveva essere un teatro di idee come vere protagoniste, in realtà, col passare degli anni, con le tante revisioni, si è dimostrato un teatro di idee perdenti per il <<sistema>> dominante, da qui il pulsare del cuore coi suoi sentimenti strazianti, con una passione che oltre se stessa, oltre la persona che ne è invasa, non può che reclamare dal lettore/spettatore la com-passione; da qui la rivolta che è ferita fisica, fino alla morte; la drammaturgia pasoliniana è, nel suo nucleo più intimo, parola raziocinante fino al paradosso, al ribaltamento nella parola della sofferenza esistenziale, coscienziale, quella di corpi-anime costretti a scindersi in una dissociazione insostenibile; si finisce per darsi in pasto ai maiali, annullandosi nella natura <<innocente>>, perdendo il corpo sacrificale, e morendo nell’anima, senza perderla facendosi marcusianamente <<assimilare>> dai veri maiali. Così, nell’VIII episodio, Julian, nel suo dialogo finale con Ida, parla la sua condizione:
Io devo entrare nella vita, per evitarla / nei suoi aspetti più meschini, quelli sociali, / quelli a cui sono legato prima per nascita… /e poi per obbligo politico, conservazione o rivolta… / Esclusi dunque tutti questi aspetti, / mi resta da affrontare una vita pura, solo… bella / o terrorizzante… senza mai mezzi termini […] Dalla realtà / io ho dunque escluso – con l’ebbrezza della restrizione – tutto ciò che è mio obbligo / (che ho lasciato formalmente in funzione: / sono la casa, la famiglia ecc. a proteggere / la mia voglia ormai senza più limiti di solitudine). / Che cosa resta? / Tutto ciò che non mi appartiene. / Che non è ereditario, o possesso padronale, / o naturale dominio almeno dell’intelletto: / ma, semplicemente un dono. Prima di tutto, la natura.