SALVIAMO IL VERO TEATRO (con Pirandello nel pensiero)

PROPOSTA DI UN PICCOLO “MANIFESTO”

PER LA SOPRAVVIVENZA DEL TEATRO

In balìa dello spirito malefico del tempo attuale, voglio mettere in relazione mie recenti esperienze di spettatore con alcuni passi scritti dal nostro più grande drammaturgo del Novecento, Luigi Pirandello. Parto da quest’ultimo, citando un passaggio dal suo saggio introduttivo in Storia del teatro italiano, a cura di Silvio d’Amico, Roma, 1936. Così afferma Pirandello: “Il Teatro non è archeologia. Il non rimettere le mani nelle opere antiche, per aggiornarle e renderle adatte a nuovo spettacolo, significa incuria, non già scrupolo degno di rispetto. Il Teatro vuole questi rimaneggiamenti, e se n’è giovato incessantemente, in tutte le epoche ch’era più vivo. Il testo resta integro per chi se lo vorrà rileggere in casa, per sua cultura; chi vorrà divertircisi, andrà a teatro, dove gli sarà ripresentato mondo di tutte le parti vizze, rinnovato nelle espressioni non più correnti, riadattato ai gusti dell’oggi. E perché questo è legittimo? Perché l’opera d’arte, in teatro, non è più il lavoro di uno scrittore, che si può sempre del resto in altro modo salvaguardare, ma un atto di vita da creare, momento per momento, sulla scena, col concorso del pubblico, che deve bearsene”.

E cos’è questo atto di vita? Scrive ancora il Nostro: “A ragionare con onestà di mente, si vedrà che il vero Teatro, oggi, non ha perduto nulla del suo valore, e non poteva perderlo perché è intrinseco alla sua stessa natura, e perciò stesso non potrà perderlo mai. Ciò che prima il popolo, accorrente in massa agli spettacoli solenni delle festività religiose, faceva del Teatro, cioè un atto di vita associata d’altissimo valore spirituale, oggi il Teatro stesso, di per sè, per sua virtù, quand’è vero Teatro, fa del suo pubblico comunque sia composto, quantunque scarso. Voglio dire che, quando davanti a una sala mezzo vuota, davanti a pochi e sperduti spettatori, si rappresenta un vero lavoro d’arte, ebbene, quella sera, quei pochi spettatori sono diventati né più né meno che il <<popolo>>, per quella virtù magica che la poesia acquista quando i suoi personaggi incarnati prendono vita sulla scena. E peggio per chi non v’era: ha mancato a un atto di vita spirituale che s’è compiuto in tutta realtà nell’ambito della società di cui egli fa parte: […] dando voce a sentimenti e pensieri, evidentissimi nel vivo giuoco delle passioni rappresentate e che, per la natura stessa di questa forma d’arte, debbono essere posti in termini quanto mai chiari e fermi, il Teatro propone quasi a vero e proprio giudizio pubblico le azioni umane quali veramente sono, nella realtà schietta e eterna che la fantasia dei poeti crea ad esempio e ammonimento della vita naturale cotidiana e confusa: libero e umano giudizio che efficacemente richiama le coscienze degli stessi giudici a una vita morale sempre più alta e esigente”.

Se interpretiamo questi concetti depurandoli da pirandellismi scolastici e tenendo presente il tempo e il contesto in cui sono stati scritti (è l’ultimo anno di vita dell’Agrigentino, il 1936), possiamo dire che sono espresse delle intuizioni tutt’ora validissime e che possono confortarci nella difesa delle ragioni dei nostri più profondi interessi, a partire da quello di far teatro già in quanto spettatori, in un tempo storico-social-culturale che sembra dimenticarsi delle forme espressive artistiche dal vivo. Non poche, d’altra parte, di tali intuizioni, credo senza troppo forzare le parole, precorrono in nuce le esperienze successive del Novecento teatrale, come in Grotowski, come in Barba, e altri ancora.

E Pirandello mi soccorre anche a proposito di alcuni spettacoli a cui ho assistito recentemente e che qui non conta citare: conta sottolineare che essi tentavano, bene o male, benino o maluccio, di mettere in scena testi provenienti dalla biblioteca o da repertori di tradizioni teatrali circoscritte. E proprio la riflessione del Nostro mi ha offerto dei punti fermi che qui vi propongo in una breve serie a carattere definitorio: :
la scelta del testo drammatico da in-scenare è solo un punto di partenza;
per noi contemporanei dovrebbe essere ormai assodato che in teatro vale il rapporto di collaborazione tra testo e scena, non essendoci un partner predominante (ciò naturalmente quando a teatro per l’appunto si mette-in-scena-un-testo);

fatti salvi i diritti e doveri dei due partners, occorre creare la possibilità che in ogni repetitions, (quasi una prova, replica per replica) si realizzi un evento, pirandellianamente un atto di vita non marginale (come fosse invece un passa-tempo), che possiamo anche definire “rito” (per un Pasolini, rito culturale, per un Testori, rito para-religioso e spirituale; per Fo e per molti attori-autori-narratori d’oggi, rito civile e politico);

nel contesto e nella dimensione finalizzante di tali riti lo spettatore deve “vivere” un’esperienza extraquotidiana, per poter decondizionarsi e astrarsi, tirandosi fuori dai propri miti, interiorizzati, incarnati, per poterli mettere poi in discussione, giudicando e giudicandosi;

testi classici (inesauribili nel loro parlarci) e testi moderni e contemporanei devono presentarci personaggi, dialoghi e conflitti, che viaggino comunque “col tempo”, devono essere contemporanei, più che attuali, devono conservare delle ragioni vive tali da far anche rivivere un testo apparentemente “morto” (e se lo riteniamo definitivamente morto sarà per delle nostre vive ragioni);

per tali motivi regista e attori devono saper affrontare un testo non da archeologi ma da architetti di una costruzione scenica nella quale devono poter soggiornare degli esseri vivi, cioè gli spettatori destinatari, senza timore di “offendere” testo e\o autore, (quest’ultimo avrà nel libro la sua sede deputata per mantenere inalterata la sua creazione);

tale costruzione può essere un “tribunale”, un “tempio”, un luogo per una comunità corale, purché in essi si respiri in libertà lo spirito umano (cioè l’energia misteriosa che unisce le persone alle personae, il tropismo che è attesa e attenzione degli uni verso gli altri), e si svolga la ricerca di ideali etici che portino verso la libertà, la responsabilità, l’autenticità, della persona, che non può e non deve essere irrelata rispetto alle altre, essendo ogni “io” specularmente un “tu”: azioni fisiche e azioni parlate, pur in situazione simbolica di creazione poetica e spettacolare, possono rivelarci una insopprimibile verità di vita.